L’ARTE
NOBILE DEL TORTELLINO
Si
fa presto a dire tortellini. E pure a mangiarli. Purchè ci sia qualcuno
che li prepari. E lo sappia fare come si deve. Perché va detto,
senza far torto a nessuno ( nemmeno un tortellino piccolo così
) che non tutti sono all’altezza. Chi prepara i tortellini? E con
quali ingredienti? La risposta alla prima domanda viene dal passato. Un
tempo chi faceva i tortellini li faceva a domicilio dei clienti. Almeno
nelle grandi occasioni, come i matrimoni, in cui la cosa più importante,
per chi invita e per chi viene invitato, è come si mangia. In Emilia, la
patria del tortellino (sulla Regione non ci sono dubbi: sulla città è
ancora in corso una plurisecolare vertenza tre Bologna e Modena), la
fattrice, la generatrice di tortellini era lei: la “rezdora”.
Parola
in dialetto emiliano che vuol dire “reggitrice”. Nelle campagne, la
rezdora era la donna che mandava avanti la casa, cucina compresa. Quando
alle capacità organizzative univa l’abilità culinaria, la rezdora
veniva “prenotata” per banchetti e matrimoni. A cose fatte,
stanca ma felice per il successo riportato, veniva ricondotta a casa sua,
e portava ai familiari, oltre al compenso ricevuto, pure una bella
quantità di “avanzi” di prima scelta. Tutto strameritato, e spesso
frutto del lavoro di più giorni, non solo quello della festa. La rezdora
veniva infatti prelevata con anticipo, perché potesse rendersi conto sul
posto di ciò che le serviva. Per fare cosa? Tutto; ma sopratutto i
tortellini.
Del
tortellino la rezdora sa ogni cosa. Per esempio, sa che va lasciato
cuocere nel suo brodo. Un atteggiamento tutt’altro che fatalista, visto
che “suo” non si riferisce al tortellino ma alla rezdora. Al brodo che
ha preparato lei.
Per
il tortellino, il brodo di cappone è la morte sua (e quella del cappone,
evidentemente). Il cappone è un gallettino nato tra aprile e maggio, e
castrato ad agosto, quando pesa circa un chilo e mezzo. A Natale ha
raggiunto il peso giusto, tra i quattro e i sei chili. Se il cappone
non c’è, la gallina (possibilmente vecchia), il pollo o il galletto
possono prendere il suo posto in modo onorevole.
Come
si fa un buon brodo si sa. Oltre alla carne (la parte grassa e la parte
magra devono essere entrambe rappresentate) occorrono le erbe aromatiche:
costa di sedano, cipolla, carote e prezzemolo. Chi ne ha voglia ci può
aggiungere un pomodoro o una patata. L’acqua è fondamentale (un litro
per ogni 100 grammi di carne) e va aggiunta di tanto in tanto per
compensare l’evaporazione (e non per allungare il brodo).
Elemento
imprescindibile per la buona riuscita del brodo è il tempo. Perché sia
degno di tal nome, e dei tortellini che vi andranno a morire, il brodo
deve stare sul fuoco quattro ore, o giù di lì. La rezdora non ha bisogno
di star lì altrettanto: deve però tenerlo d’occhio. L’occhio del
padrone ingrassa il cavallo, quello della padrona (la reggitrice)
sgrassa il brodo: di tanto intanto deve infatti eliminare gli “occhi”
di grasso, insieme alla schiuma che si va formando in superficie.
Per
potersi dichiarare sgrassato, il brodo non passa soltanto per la
privazione degli occhi: dovrà anche passare per un colino fitto, o
per un panno umido ben strizzato.
Perché
un’ebollizione così lenta, e quindi lunga? Per consentire alla carne di
cedere le proprie sostanze al brodo un po’ per volta.
Mentre
il brodo s’insaporisce la rezdora non se ne sta con le mani in mano: è
una che tiene le mani in pasta (è per questo che la chiamano). La pasta
del tortellino.
Diciamolo
subito: il tortellino non è altro che una pasta ripiena. Di cosa, lo
vedremo poi. Siccome non esiste contenuto senza contenitore,
occupiamoci prima di lui, o meglio di lei: la pasta.
Andando
a ritroso, pasta vuol dire grano. E grano duro, che tiene
l’ebollizione, e non si sfalda. Al mulino il grano viene ridotto in
farina. Di farina ce n’è molte qualità, e la pasta sfoglia è figlia
di almeno tre-quattro di esse, selezionate e miscelate fra loro, per
assicurare il giusto mix di cottura e sapore.
Dopo
la farina, uova, sale, ed olio. D’oliva, e di gomito: è il
momento di impastare insieme tutti questi elementi. Dal vigoroso e
sapiente impasto verrà fuori la pasta del tortellino.
La
pasta dev’essere morbida. Quanto? Q.b. Quanto basta. Queste due
consonanti, odiate da chi non sa cucinare, e inutili per chi lo sa fare,
vogliono dire non troppo morbida (altrimenti si attacca alle dita), ma
nemmeno troppo poco, se no si spezza sotto le mani. All’eccessiva
mollezza si ovvia aggiungendo della farina, alla secchezza si pone rimedio
con un po’ d’acqua (in che dosi? q.b.)
A
pasta ben amalgamata e gommosa, fa la sua comparsa nelle mani della
fattrice il matterello. E’ il momento della verità. Non è più
possibile tirarla per le lunghe, bisogna tirare la sfoglia. Un ‘impresa
delicatissima e non priva di rischi. Una volta tirata a regola d’arte,
la “pastella” è di un bel giallo sole: e come il sole è grande
e rotonda. Se ne sta lì splendente, distesa sulla tavola. Ancora non sa
che sta per essere straziata e sminuzzata, allo scopo di rendere possibile
il raggiungimento dello Scopo Ultimo: il tortellino.
Il
coltello è già entrato in azione. Prima alcuni tagli paralleli
riducono la pasta in strisce, poi dei tagli perpendicolari a questi danno
vita a tanti quadratini di circa 2 cm. di lato. Da quest’operazione di
chirurgia alimentare sono infine nati i tortellini. O quantomeno il loro
involucro.
Stretta
(sottile) è la sfoglia, larga è la via che conduce al tortellino: quasi
un’autostrada. La favola del tortellino è piena di passaggi
obbligati, si potrebbe dire che ne è ripiena.
Il
ripieno è costituito da carne tritata, cruda e/o cotta: brasato di manzo,
salsiccia, prosciutto, arrosto di maiale o di vitello, pollo cappone,
mortadella, pancetta. Ma c’è spazio per tutto: bietole, cannella,
patate e finanche pesce. Il ripieno è a sua volta pieno di formaggio.
Per
fare un buon tortellino, (oltre al grano, di cui s’è detto) ci vogliono
infatti sia la grana che il grana.
Meglio se parmigiano.
La
grana una volta occorreva per la rezdora, ed ora serve per
acquistarlo dove si riesce a trovarlo buono.
Per
un buon tortellino il parmigiano è essenziale. E’ lui il
formaggio più adatto ad entrarvi. Guarda caso, si fa in Emilia-Romagna. E
non deve assolutamente essere fresco, bensì stagionato: dai 12-18 mesi
fini ai 4 anni.
Basta
così: ormai tutto è pronto per il matrimonio fra la pasta e il ripieno.
Sono fatti l’uno per l’altra, perciò sembra tutto facile. Ma
provateci un po’ voi. Per scoprire quant’è complicato farli stare
insieme occorre essercisi passati.
Amalgamare
la pasta con il ripieno è infatti un’arte consumata; quasi
un’alchimia. Per dar vita al Tortellino si deve prendere un
pizzico (non di più, ma neppure di meno) di ripieno, sistemarlo sul
quadratino di pasta, e poi chiudere la sfoglia sul ripieno. Con una
sapiente pressione nei punti giusti.
Infine,
la cottura. I tortellini vanno cotti con delicatezza, facendoli cadere
lentamente, perché non si incollino. Il tempo di cottura è breve,
ma il piacere che si prova nel gustare i tortellini è lungo. E si
prolunga nel ricordo.
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